Inutilità e Ribellione, la Saggezza dell’Eco-Antropologia in Cammino
Alcuni estratti del compendio "Dalla Roccia al Samadhi"
di Damiano Tullio
Un Saggio di Ricerca in Antropologia Esistenziale e Clinica dedicato al ruolo delle attività in Natura dall'Alpinismo alla Meditazione in Cammino, come strumenti di Consapevolezza e Cura dell'Anima.
Lassù provammo quel fascino quasi inestricabile di particolari sentimenti, che si suole chiamare il senso della vetta.
Il mondo esterno, l’interno e il cosmico si compenetrano a vicenda.
Eugene Guido Lammer
Alpinista Austriaco
Da “Fontana di Giovinezza”
1.3 Inutilità e Ribellione, la Saggezza Filosofica del Cammino
“Noi cerchiamo la bellezza ovunque.
E passiamo spesso il tempo così,
senza utilità (quella che piace a voi)
senza utilità (perchè non serve a noi)”[1]
Nulla è necessario nella nostra vita oltre ai ristretti bisogni fisiologici di sostentamento e riposo; eppure la società impone un ordine gerarchico in relazione alle nostre azioni, spesso precostituite da un modello culturale. Capita spesso di pensare infatti che le azioni siano più o meno importanti in base al profitto che si possa ricavare da esse, specialmente secondo gli stereotipi della società capitalistica occidentale.
Eppure l’inutilità risulterebbe necessaria per avere una effettiva realtà percettiva del mondo che ci circonda, parlando del concetto di bellezza ad esempio Immanuel Kant sviluppa un pensiero radicale riguardo l’importanza dell’inutilità:
“Solo ciò che è inutile può essere veramente apprezzato da un punto di vista estetico, in quanto generalmente si è obbligati a definire bello ciò che ci risulta utile al fine di dare la nostra approvazione a un oggetto che soddisfa una delle nostre necessità. Quando ci capita di dover giudicare un oggetto inutile, l’approvazione non ci è imposta da nessun interesse, e allora il nostro giudizio è libero”[2]
Tuttavia il pensiero post moderno consumistico discosta l’individuo dalle attività contemplativo-ricreative, l’ossessione legata al concetto di investimento, tempo e ricchezza, sviluppa nel pensiero contemporaneo una profonda pulsione nell’affermazione del singolo individuo alla costante ricerca del successo. Tali processi generano regolarmente insoddisfazione e frustrazione, ogni volta che un obbiettivo atteso viene vanificato.
Da qui nasce il senso di sconfitta e solitudine dell’uomo contemporaneo, privato dei valori delle società tradizionali ed investito dal continuo desiderio di risultato ed autocelebrazione.
Pierre Hadot negli “Esercizi Spirituali e Filosofia Antica” del 1981 attribuisce un doppio significato al concetto riguardo ciò che è utile: da una parte definisce un tipo di utilità destinata ad una logica di vantaggio e profitto, ma dall’altra ipotizza un tipo di utilità legata alla ricerca e allo sviluppo dell’essere dell’individuo, che viene più generalmente ed erroneamente tradotta come inutilità. Interessante è il pensiero di Montaigne, feroce avversore del concetto di inutilità, sostiene che nessuna cosa e nessuna azione in natura è effettivamente inutile.
Riguardo le azioni nasce la scomoda e costante domanda su ciò che sia necessario e su ciò che non lo è; in una intervista Walter Bonatti sosteneva che la realtà sarebbe solo una minima percentuale della vita, perché l’uomo ha bisogno di sognare per salvarsi.
Secondo una logica di profitto tuttavia il tempo dedicato al sogno, alla fantasia ed alla contemplazione è tempo non utile.
Eppure tutta la nostra storia sembra ricordarci il contrario, i pensieri più profondi dell’individuo, la scelta e la crescita interiore soprattutto in seguito a momenti di crisi avviene sempre in momenti di inutilità, non è un ozio fine a se stesso, piuttosto una scelta radicale di non aderire a quello che è il senso dell’utilità, Cristo girovagò nel deserto per quaranta giorni, Govinda intraprese un viaggio dall’India al passo più alto dell’ Himalaya, nel Buddhismo Vipassana camminare in natura è uno dei quattro modi di meditare.
Riguardo la figura di Cristo, Christian Bobin in L’uomo che cammina espone la sua personalissima e poetica visione di Gesù di Nazareth:
“Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su sessanta chilometri di lunghezza e trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli sia vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine potremmo fare a meno di quel libro e ricevere sue notizie ascoltando il canto dei granelli di sabbia sollevati dai suoi piedi nudi.”[3]
In questi esempi nulla avviene di realmente utile, non vi è profitto in questo peregrinare eppure dietro a questi singoli gesti cadenzati dal lento controllo del respiro avviene un processo percettivo straordinario. Le strategie dell’occhio cambiano e si passa lentamente dallo sguardo alla visione, dalla visione all’osservazione, così imparando a conoscere con più attenzione tutti quegli insignificanti dettagli del mondo che lo circonda, l’uomo inizia il più straordinario cammino, quello dentro se stesso[4].
Il grande prodigio della natura è insegnare a conoscere, ma soprattutto a conoscersi, questa è senza dubbio la componente filosofica più profonda di tutte le pratiche motorie e meditative che possono svolgersi in natura, l’uomo postmoderno ha bisogno di questo, quando tutti i valori scientifici ed illuministici decadono, l’individuo ritrova nella sua visione primigenia del mondo, nuovi valori e simboli su cui orientare i propri desideri, aspirazioni e speranze.
In questo secolo abbiamo compreso che è necessaria una controtendenza ed una decrescita in senso evoluzionistico, più abbiamo sul piano materiale e più rischiamo di essere infelici. Il meschino sistema capitalista ci impone delle regole di immagine e profitto aberranti, secondo le quali l’uomo sarebbe costretto ad un percorso esistenziale ciclico e serrato legato al profitto, diventando un criceto che corre ossessivamente sulla sua ruota in una gabbia.
La differenza sostanziale sarebbe nella scelta, il criceto per volontà altrui nasce e cresce in uno stato coatto, l’uomo lo sceglie per una visione esistenziale fuorviante. A tal proposito mi ritorna alla memoria un significativo graffito murario osservato durante uno studio riguardante le subculture metropolitane nella periferia romana che riportava questa frase:
“Lavori per comprarti la macchina per andare al lavoro”.
Parole decise, brevi ma pregne di significato che nella loro semplicità di una cultura di periferia non fanno altro che rafforzare teorie filosofiche ben più profonde, riguardanti la ricerca dell’essere umano a discapito del gretto materialismo consumista.
La crisi economica degli ultimi anni testimonia il fallimento profondo del sistema, con essa il decadimento degli ideali su cui si è fondato sino ad oggi il capitalismo. Tornando al problema di utilità dunque potrebbe esserci un’inversione dei valori su ciò che può essere considerato necessario.
Ogni individuo unico ed irripetibile, attraverso la derivazione culturale e crescita esperienziale sviluppa una propria scala di priorità e valori, da qui il singolo è più o meno predisposto ad adeguarsi a modelli esistenziali di massa, o ad uscire fuori dal gregge per trovare una propria via di salvezza o spinta trascendentale. La scelta volontaria di “perdere tempo” attraverso delle attività filosofico esistenziali in natura fa parte di queste possibilità.
Tengo qui a precisare che è solo una delle possibilità, non l’unica poiché le scelte come motori di sviluppo dell’individuo ed emancipazione dal disagio sono plurime, come le identità dell’uomo, occorre addestrare la propria identità a comprendere quale sia la scelta più importante per superare gli stereotipi, le forzature ed i modelli precostituiti
Definire una propria attività come inutile, irragionevole e priva di profitto è senza dubbio il primo passaggio da affrontare, accettare ed abbracciare una propria decisione in relazione ad uno stile di vita o un ideale rafforza l’individuo, proprio per questo nella società contemporanea, comprendere ed amare l’inutilità di un’azione è il primo moto sovversivo per definire la libertà dell’uomo.
Accettare l’inutilità di un’azione è senza dubbio un passaggio universale per chi volesse avvicinarsi ad un certo tipo di attività in natura, ma quando l’azione che si sta compiendo oltre che essere completamente inutile richiede un notevole investimento di tempo ed economico costantemente caratterizzato da fatica, difficoltà e pericoli allora diventa un vero e proprio processo catartico e rivoluzionario.
Svegliarsi all’alba, mettersi in marcia in un ambiente selvaggio, sotto i moti del vento, della neve della pioggia, senza curarsi del gelo invernale o della canicola estiva, soltanto per raggiungere una meta, un tragitto che conduce da un punto A ad un punto B, è un sentimento che conoscono bene, pellegrini, treckkers, mountain bikers ed alpinisti; chi scegliendo il percorso più semplice, chi ricercando la linea più elegante su una parete remota, esercitano liberamente un diritto: la ricerca della bellezza.
Niente è più inutile che rischiare la vita su una parete nord dove non batte mai il sole, eppure l’emancipazione dell’uomo la troviamo non quando arriviamo al punto di arrivo prefissato, ma in quei pochi metri intorno a noi su cui si indirizzano tutte le nostre capacità psichiche e percettive per capire come proseguire lungo quella linea ideale di salita che siamo prefissati osservando quella montagna.
Quando una passione di questo tipo viene accettata e compresa dall’individuo diventa il motore trainante della quotidianità, un sentimento che si riversa positivamente in tutte le sfere della persona in ambito lavorativo, sociale ed affettivo, aumentando l’autostima e l’autoconsapevolezza.
La consapevolezza che si sviluppa in natura rende l’uomo più disponibile alle critiche e a rivedere ed analizzare i propri punti di vista, proprio perché molto spesso soprattutto in montagna è necessario retrocedere e farsi carico dei propri fallimenti, questo acuisce una accettazione positiva del non raggiungimento degli obbiettivi, sviluppando una visione costruttiva dell’insuccesso e la disponibilità di relazionarsi con l’altro accettando che il proprio punto di vista possa essere quello sbagliato.
In definitiva aderire all’inutilità rappresenta l’autoaffermazione del proprio essere, agendo secondo modalità prive di profitto gli scopi, le aspirazioni e obbiettivi se pur insensati rappresentano la scelta, incompresa dai molti ma essenziale per la propria individualità, una auto attribuzione di esserci per noi stessi.
Questa affermazione del proprio essere ci rende forti delle nostre decisioni per il semplice fatto che accettiamo le nostre responsabilità relative all’insensatezza delle personali scelte; così chi muove il primo passo fuori dall’asfalto ed incontra la terra rivive seppur inconsapevolmente l’esperienza dei briganti, dei pastori, dei pellegrini e dei grandi mistici che per decisione o necessità hanno scelto di vivere il loro essere fuori dal villaggio, in una dimensione di inutilità ed asocialità costruttiva e meditativa.
Per concludere questo paragrafo trascrivo un’intervista fatta ad un pastore molisano durante un’indagine sul campo riguardante la tradizione della transumanza:
“nel 70 ho fatto il militare, parlavo solo paesano; ho visto la città, vissuto i suoi lussi ed i suoi vizi, ho studiato ed ho capito che c’era altro oltre le montagne, ma dopo due anni ho fatto la sacca e sono tornato dalle capre, perché qui c’è tutto quello che conta. Il mondo moderno rende schiavi ed infelici”
[1] Marlene Kunts, Bellezza, Bianco Sporco, Virgin Records, 2005.
[2] Kant. I, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1980.
[3] Bobin. C, L’uomo che cammina, Quiqajon, 1998.
[4] Faeta. F, Strategie dell’Occhio, Angeli, Milano, 2003.