Una storia di Amicizia . Agonia ed Estasi dell’arte di saper cavalcare le onde imparando a rimanere in piedi nella vita.
Racconto scritto di getto, mai corretto, volutamente mai corretto; un flusso di coscienza che narra l'educazione filosofica alla vita dal fanciullo all'età adulta attraverso la pratica del surf.
Agonia ed Estasi dell'arte di saper cavalcare le onde imparando a rimanere in piedi nella vita.
“Fa pure surf tutta la vita
Ma non restare un surfista tutta la vita”
Cit. dal Film I ragazzi del Surf
Analisi Antropologica semiseria, dei ricordi di un Surfista.
C’è stato un momento negli anni 80… nei primissimi anni 80, in cui la televisione ed i media volgevano per la prima volta uno sguardo accattivante all’avventura, all’outdoor e all’ecologia.
E non parlo della moda dell’outdoor istagrammato a cui si assiste oggi, parlo di un mondo in cui tutto questo era nuovo, esotico ed entusiasmante.
Immaginiamo un bambino totalmente immerso in questo mondo, i cui idoli erano Aragorn della saga Tolkeniana, Bonatti, Ermanno Salvaterra ed il nonno che era il primo che gli aveva insegnato i segreti della natura e la verticalità delle montagne.
Questo bambino di cui parliamo era un vero nerd, tanto che a casa veniva chiamato :cespuglio triste perché ( secondo lui, costantemente vestito di verde o di mimetica) doveva essere pronto per recuperare nella macchia qualsiasi animale ferito e portarlo alla Lipu o al WWf di cui era un feroce attivista nonostante la giovanissima età.
Parliamo di un ragazzino che visto oggi, sarebbe immediatamente catalogato dai suoi maestri di scuola come affetto da qualsivoglia disturbo o ossessione cognitiva, perché mi maniera maniacale studiava i nomi scientifici di piante, animali e montagne per poterli poi riconoscere nelle sue scorribande alpestri in cui sembrava un albero di natale, bardato con zaino, binocolo, macchina fotografica, coltello ,imbrago, moschettoni ed altre cose che gli servivano mezza volta su 100.
Quel ragazzino era ipnotizzato da tutto ciò che avvicinava in modo più o meno estremo l’uomo alla natura, esaltandone gli aspetti più dinamici ed eroici, tanto che invece di contare sul calendario i giorni che mancavano per il natale o il compleanno come facevano i suoi coetanei, lui contava il tempo che lo separava dalla prossima scalata in montagna o la settimana bianca, o l’arrivo di una mareggiata in cui andare a garzillare (A Roma si dice così) prendendo di petto le onde del mare con il papà.
Ci fu una data , il 22 Ottobre 84 che resterà indelebile, nella sua memoria e in quella di tanti aspiranti avventurieri come lui: andava in onda per la prima volta “Jonathan Dimensione Avventura”, fu in quel momento che quel piccolo nerd si rese conto che c’era chi quelle cose le faceva anche per lavoro, che poteva essere uno stile di vita, quindi i suoi idoli, che erano solo su quei libri o su quella montagna, diventavano qualcosa di socialmente accettabile, anzi dei lontani superuomini per chi dal divano della grande città vedeva quelle vette inviolate e quei mari in tempesta.
Pensava che l’epoca di Bonatti, delle avventure fosse passata e quei miti non interessassero più al mondo tecnologico che gli Yuppies e gli anni 80 stavano modellando….
Invece nasceva una nuova generazione di Sognatori, meno austeri di quelli dell’are di Bonatti dell’Alpinismo Eroico, e sicuramente più colorati che scalavano montagne con corde fluorescenti pantacollant sgargianti o solcavano i mari con il windsurf o tavole da surf che sembravano uscite da una clip di Video Music ( all’epoca m tv ancora non era arrivata).
In questo nuova visione di mondo, il bambino comprese che l’avventura non era solo quella che aveva imparato in famiglia attraverso l’austera lotta con l’alpe, lo studio minuzioso, la preparazione e la serietà…
C’era un mondo di anarchici- ribelli , di selvaggi che guardava con una ammirazione sproporzionata.
Il tempo trascorreva e lui cercava di emulare questi sciamani dell’estremo nei modi più inappropriati, essendo solo un ragazzino poteva limitarsi ad osservare e cercare di ripercorrere le loro gesta, non esistevano scuole, non c’era una tradizione, tutti coloro che ci provavano erano pionieri.
Finché arrivò un giorno, una umidissima giornata di giugno in cui le nuvole viaggiavano veloci da ovest e portavano quelle mareggiate di Libeccio che all’epoca duravano giorni e che oggi purtroppo non si vedono più.
Quel giorno il padre tornò a casa con qualcosa che avrebbe segnato per sempre la sua vita, una “Plancetta” (all’epoca si diceva così), un Bodyboard della Morey Boogie.
Si perché ad Ostia dove viveva questo giovane sognatore già detta la “California dei Poveri” era già nato uno dei primissimi movimenti surfistici italiani ed loro un riferimento era un negozio proprio davanti al Pontile che vendeva appunto skateboards, tavole e magliette, di quel luogo il bambino in futuro non avrebbe ricordato che qualche dettaglio, ma ne avrebbe ricordato sempre l’odore.
Il bambino di cui parliamo sono proprio io, la voce narrante di questa storia che si fa testimone di vicende personali ormai estinte, ma che raccontano luoghi e vite che si sono indissolubilmente unite nell’acqua salata.
Fatto sta che quella libecciata di inizio giugno del 90, con quel bodyboard fu per me una data che non scorderò mai, l’acqua era gelida eppure passai ore ed ore ad “allessarmi” a mollo, solo con un paio di pantaloncini giallo fluo, che con le loro cuciture graffiavano le cosce come spine di un roveto.
Dopotutto tanta tecnologia all’epoca nel mondo del surf soprattutto in Italia non se ne vedeva.
Mi ricordo che con quel mare attivo una session durava malapena dieci minuti, perché in quelle condizioni ad Ostia funzionava così: entravi 100 metri a nord perdevi 50 metri almeno per perdere posizione e la corrente ti trascinava per almeno 200 metri ed era già ora di uscire per ricominciare il giro.
Non avendo riferimenti su come dover svolgere il take off rimanevo dove l’acqua era più bassa e appena arrivava una schiuma tentavo saltando a piedi pari con le mani sulla tavola di rimanere in equilibrio. Nell’arco di un’estate con questa tecnica improvvisata una decina di onde le portai a casa.
Oggi sarebbe un risultato decisamente deludente anche per la primissima session seguiti da un insegnante…. Ma ripeto avevamo poco e sapevamo ancora meno.
E poi c’erano i grandi quelli che erano stati i veri pionieri, che non si sa come avevessero imparato, a me sembravano adulti….
Ai miei occhi erano già vecchi, quando invece lo scarto tra noi era di 7 o massimo 10 anni, ma si sa, quando sei bambino, un diciottenne sembra un adulto, e loro lo erano già , perché in assenza totale di informazioni, siti e giornali , primi fra gli italiani avevano sfidato l’oceano.
Era un mondo ben separato, da una parte stavamo noi ragazzini, dall’altra loro che erano già dei veri locals con le loro regole e gerarchie.
Coinvolgendo qualche amichetto di scuola (Villa, Bozo, Cappotto, Puttru, Belfio, Pallone) ci fu un momento magico in cui tutti i preadolescenti della scena si conoscevano e andavamo a surfare con l’autobus e quando fortunati accompagnati da qualche genitore.
rigorosamente nei posti dove i grandi non c’erano perché all’epoca il rispetto era importante e se non erano loro ad invitarti, tu non ti sentivi lontanamente degno di prendere le onde fra loro, anche perché come scoprimmo più avanti ci tenevano a mantenere una gerarchia ferrea.
Il mio interesse per l’attivismo in ambito naturalistico non era certamente mutato, ci fu un giorno , mentre ero volontario alla LIPU in cui citofonarono dicendo :
“ ciao c’ho un gabbiano ferito, do te lo lascio?”
scendendo dalle scale di via della Marina mi resi conto che chi ci aveva portato il gabbiano erano due dei surfer che noi immaginavamo come cattivissimi il responsabile della sede Lipu chiese dove fosse il gabbiano, perché li c’erano solo due coi capelli lunghi , il motorino e le tavole.
Uno dei due tirò fuori il gabbiano dallo zaino impigliato fra ami e fili di nailon nei quali si era impigliato in mare.
Ci lasciarono il gabbiano ed uno dei due vedendomi con la t shirt della Town n country che all’epoca era un tratto distintivo dei surfisti disse: “viè ar circolo un giorno che te famo vede er surf.”
Dal vedere al fare ci passava un mare appunto, perché si entrava quando loro finivano o al massimo come si diceva, si poteva “garzillare” la schiuma fra i paletti dei pontili, ma finalmente ci avevano riconosciuto, avevamo accesso a quel mondo esotico fatto di quei 10/ 15 eroi che per noi erano così distanti, e continuarono ad esserlo per diverso tempo.
Perché nonostante frequentassimo gli stessi spot, gli stessi luoghi di ritrovo, perché facevamo di tutto per emularli, quando in acqua facevi qualche errore ti prendevi un bel :
Lo capisci l’Italiano? RAUS
E dentro di me mi chiedevo : “ma raus mica è italiano” forse in quegli istanti non era appropriato intavolare diatribe glottolinguistiche che si sarebbero esaurite con un bel ceffone educativo.
E in quello che sembra poco più di un racconto folcloristico in bilico fra l’autobiografia e la commedia si nasconde una traccia di vita vissuta in grande profondità, un romanzo esistenziale, una analisi antropologica di una recente dimensione estinta.
Una archeologia surfistica di cui non restano che nostalgiche vestigia di un mondo selvaggio che non potrà più ripetersi.
Un mondo fatto di vite che si sono intrecciate, nel bene e nel male, un mondo di rapporti solidi e fraterni che ancora sopravvivono nonostante le sferzate dei decenni di libecciate, ci sono i viaggi, i traguardi sportivi ed umani e poi ci sono i fallimenti e le perdite, perdite di coloro che come questi racconti appartengono purtroppo solo alla memoria, perché ci hanno abbandonato lungo il cammino.
Eravamo solo bambini, estrazioni sociali molto diverse , luoghi di provenienza diversi, Ostia era un quartiere di Roma, un quartiere che in in un’altra regione poteva essere un capoluogo.
Ed i luoghi erano appunto diversi perché in un territorio così ampio esistevano realtà sociali e spaziali molto differenti fra loro.
Solo una cosa ci univa, e lo faceva in maniera radicale, era l’amore per le onde.
Molti di noi che hanno vissuto quel momento ricordano con nostalgia l’era in cui prendevamo quell’autobus con le tavole sotto braccio e qualcuno esclamava regolarmente :
“sti scemi se credono de sta in California”, si perché a parte i lupi di mare che il mare lo vivevano d’inverno conoscendo la forza del mediterraneo, la visione comune era quella che nel nostro mare non fosse assolutamente adatto alla pratica del surf.
Il surf in quell’era rappresentava un vero e proprio cambiamento sociale, erano tempi in cui il concetto di subcultura esisteva con la S maiuscola, erano tante e diversissime fra loro, spesso in costante conflitto politico, bisogna ricordare infatti che dagli anni di piombo erano passati solo dieci anni e le strade erano ancora piene di slogan con svastiche, falci e martelli e celtiche; linguaggi di studenti che vedevano solo simboli e non conoscevano assolutamente le ideologie.
Gli adolescenti per la loro natura tribale hanno sempre avuto bisogno di erigere un vessillo e in quegli anni era spesso determinante, erano modalità che si acquisivano in relazione alle scuole che si frequentavano spesso associate a movimenti, di destra e quelle o di sinistra.
Di analisi antropologiche riguardo le subculture se ne sono svolte tante, e ci sarebbero veramente tonnellate di informazioni da enumerare, ma qui voglio soffermarmi su quelle che in un modo o nell’altro si sono intrecciate al surf in quegli anni.
Ed indissolubilmente erano molto diverse fra loro in base alla appartenza scolastica dei giovani che frequentavano scuole private, istituti tecnici e licei.
Io sono uno di quelli che fortunatamente nascendo come ecologista sono caduto direttamente nel surf assimilandone usi e costumi dal punto di vista filosofico, musicale, estetico ed espressivo, quindi i miei primi anni novanta non sono stati caratterizzati dagli orribili bomberini o pantaloni da hip hop, ma c’era chi veniva da quei mondi e una volta avvicinati al surf si trasformavano totalmente perdendo la loro precedente identità.
Erano tanti, e mi è capitato di assistere a trasformismi davvero unici .
C’erano: i Virius, Gli Hippopers, I pariolini che però ad Ostia venivano chiamati iPalocchini, c’erano i Couz (che definivamo come coatti), c’erano le Zecche, gli Skinheds, i Rastafariani, e c’erano i secchioni.
Molti di loro precedentemente reputavano il surf un’attività ridicola, ma che in breve tempo aveva contagiato anche loro ed iniziavano a farsi crescere i capelli lunghi e girare a piedi nudi… si ho detto proprio a piedi nudi.
Perché Ostia che era appunto la California dei Poveri in quegli anni chi faceva il surf emulava in toto “the big Wednesday” e regolarmente capitava di entrare nel fast food a piedi nudi o senza maglietta d’estate pensando di essere a Trestles.
Proprio nel 92 se non ricordo male, quando il negozio del pontile abbassò definitivamente le serrande , nacque il primo vero Surf Shop, il mitico Geckos di Roberto “il Lungo” che divenne una vera e propria istituzione aggregativa di cui conservo centinaia di splendidi ricordi.
Non esisteva pomeriggio di quella adolescenza in cui in mancanza di onde non ci si recava li per vedere di straforo i filmati che venivano proiettati in vetrina.
Era un luogo iconico, ad un solo isolato dal mare, vicino al fast food , ma soprattutto dietro casa dei miei nonni, cosa risultava ideale perché in caso di onde, anche quando erano momenti in cui occorreva studiare “secondo i miei genitori” io mi facevo dare la tavola dai miei nonni ed andavo a surfare con un certo omertoso consenso.
Di quei filmati che passavamo ore a guardare in vetrina ricordo ancora i nomi, alcuni di essi ce li facevamo prestare e li doppiavamo, facendoli girare clandestinamente più di dei film porno.
Nomi indelebili come: Hawaii 91, Rad Movez, Green Iguana, Adrenaline Surfseries, Bunyp Dreaming, e un paio d’anni dopo i celeberrimi Momentum della Poor Speciment Production di cui oggi ancora si ricorda la mitica “Momentum Generation” con il grande esordio musicale dei Pennywise, Sprung Monkey e Bad Religion, che erano già molto famosi in altri contesti, ma qui non li conosceva nessuno.
Tempi in cui il Punk Californiano incontrava il Surf e gli Eroi andavano braccetto con gli Antieroi, così c’era chi amava personaggi non convenzionali tipo Fletcher e chi i soulsurfer come Tom Curren, ad Ostia ovviamente l’underground era la parola d’ordine e quindi Fletcher era visto come la star delle star.
E noi ovviamente con le nostre lunghe bionde capigliature cercavamo di emularlo, tanto da tatuarci come lui ed Archibold già a 14 anni, e poi c’erano quelli più grandi, i local Heroes come il grande Lele Vitaletti o Richi, che ai vari pro californiani assomigliavano anche surfisticamente.
Oggi sono nomi sconosciuti alle nuove generazioni, ma a quei tempi, quando la reputazione era più veloce dei blog e di Instagram c’era chi raccontava che in California, quando alcuni locals del posto erano fuori a guardare una grande mareggiata oltre misura … solo tre surfisti di Ostia entrarono, fatti che da storia divennero leggenda, e successivamente dimenticati dai molti, a causa di questa nuova era basata su un falso apparire, dimenticando le vicende reali.
Oggi nel digitale è tutto documentato e anche i meno abili hanno la loro foto incorniciata mentre tentano di improvvisare una manovra, c’è chi ci si è creato addirittura una professione diventando Surf Influencer con appena pochi anni di esperienza alle spalle. Ma all’epoca non esisteva nulla di questo e purtroppo quelle gesta sopravvivono solo nella mente di chi le ha vissute, e in ttti noi eravamo parte di quel mondo.
Le testimonianze di quelle gesta erano davvero poche, solo alcuni anni dopo uscirono alcuni scatti con protagonisti vari su un articolo : “Italiani all’Estero - Orgogliosi di Esserlo” su King Surfer Magazine, rivista divertente che rappresentava una editoria laziale che nasceva poco dopo il più noto Surf Magazine ideato da noti personaggi della Toscana Settentrionale.
Rispetto è uno dei valori etici più importanti che ho appreso in quegli anni, era un mondo estremamente piccolo, si poteva viaggiare da Livorno fino a Gaeta e riconoscere il viso di ogni singola persona che praticava nei rispettivi Spot. Ed era in quel particolare contesto che ogni comportamento, manovra, gesto di cortesia o gesto di scortesia veniva pesato e raccontava chi eri… dentro e fuori dall’acqua, ed era in quel modo che si guadagnava il rispetto degli altri.
In filosofia esiste un concetto legato al mondo tedesco ed utilizzato soprattutto da Heidegger che rappresenta l’essenza pura dell’esistere in termini esperienziali, legata all’azione e alla natura del singolo individuo, si chiama Dasein.
Posso affermare che nella storia che mi trovo qui a raccontare, ogni singolo protagonista (pur non sapendolo) era intriso e atorappresentato da questa spinta ontologica dell’interpretazione dell’Essere ed Esistere, ed è proprio in queste categorie che i valori etici più profondi si manifestano nella loro integrità.
Nella nostra vita, quindi nel nostro Dasein, tutto girava intorno al surf, e non esistevano previsioni attendibili o applicazioni che potessero prevedere l’arrivo delle onde, ogni giorno prima di entrare a scuola se qualche nuvola proveniva da mare il pellegrinaggio alla spiaggia era obbligatorio.
Di solito il primo a vedere il mare avvertiva tutti gli altri, ed era facile perché eravamo davvero pochi.
Bastava una telefonata, ovviamente sul fisso ed era innescata la miccia della nostra incontenibile frenesia ed entusiasmo.
Per alcuni lo studio non era che un dettaglio, per altri marinare la scuola era impossibile; non ho mai amato mentire ai miei genitori e ogni volta che lo facevo venivo regolarmente smascherato perché mi vestivo di un sorriso isterico che portava alla luce ogni mio sordido intento surfistico.
Con gli anni infatti si creò un’intesa consensuale secondo la quale , se le onde erano davvero belle ogni tanto potevo saltare le lezioni.
Sono stato abbastanza fortunato da questo punto di vista perché a casa mia il surf era diventato una passione familiare, dopo circa quattro anni dalla mia prima surfata, anche mio padre si appassionò, e quindi dai 13 anni , spesso i passaggi auto per lo spot o le giustificazioni scolastiche venivano in un certo modo facilitate dalla passione comune.
A lui devo tanti momenti di bellezza, ridere e scherzare era la parola d’ordine, mio padre effettivamente era un artista, un performer nel trasformare la vita in un gioco, in cui la musica, e le battute anticipavano qualsiasi dovere.
Proprio per fare ciò che amava aveva un negozio di abbigliamento che era diviso in due diversi ingressi , uno era di sartoria d’avanguardia con pezzi unici di Yamamoto e Comme des Garcons, e l’altra molto casual dove fu uno dei primi in Italia a vendere Bear e Vans.
Stufo dell’abbigliamento nel 92 aprì un pub irlandese, che divenne in poco tempo un punto di ritrovo per tutta la Old School surfistica, ricordo in numerosi concerti live delle varie band surfiste di cui non dimenticherò mai alcune strofe “Giro l’Italia di Porto in Porto ma l’onda più bella è sempre Coccia di Morto”.
Qui si incontravano i vari surfers di Ostia e Fiumicino che all’epoca erano forse le due realtà più hot della penisola, amiche, ma spesso antagoniste dal punto di vista atletico.
Dico atletico perché proprio in quel momento nasceva l’ASI, la prima federazione che tentava di dare una voce al surf e creare un circuito agonistico vero e proprio.
Mi ricordo ancora la prima gara , organizzata da Carlo Piccinini, storico proprietario del Dirty Surf Shop, a Coccia di Morto, uno spot ormai quasi estinto ma che in quegli anni regalava onde mitiche con il mare da sud, in quell’occasione si incontrarono i più forti dell’epoca: dai vari componenti della famiglia d’Angelo ai vari Lele, Pappagallo, Perucci.
E anche noi ragazzetti avevamo il nostro ben da fare nella categoria Junior in cui la lotta per il podio italiano era sempre fra Ostia, Fiumicino e la Versiglia.
Durante questi eventi tutto era maccheronico e sperimentale , erano contraddistinti da una comune voglia di confrontarsi e divertirsi , a volte fra i partecipanti che provenivano da regioni diverse c’era la voglia di sottolineare un forte spirito identitario, campanilismo e senso dell’amicizia in cui si aveva la libertà di essere politicamente scorretti per difendere i propri punti di vista anche verso le giurie e le federazioni.
Fra i vari eventi ricordo proprio quando ad Ostia venne (e non so perché) Gary Linden, mio padre gli organizzò una festa proprio suo pub , c’erano alcune tavole da lui realizzate durante quel soggiorno esposte sui muri del locale, ma la cosa più divertente è che tutti volevano una sua firma sulla tavola, e lui anche quando non erano tavole scappate da lui sue faceva questi autografi e ti teneva a chiacchierare davanti a una birra.
Quel periodo infatti non era come oggi ed i grandi nomi del surf non transitavano mai in Italia e quando capitava era una festa, così come avvenne con Ross Clarke Jones.
Poi iniziando a viaggiare capimmo cosa era veramente il surf fuori dall’Italia e con esso iniziammo a scoprire la vita trasformandoci da bambini a giovani adulti.
Il momento che ricordo come una vera propria iniziazione furono proprio i miei 14 anni, con il primo viaggio in cui conobbi per la prima volta le onde dell’oceano e l’amore
Per una serie di allineamenti astrali e di destino in quel viaggio accaddero tutte quelle coincidenze che un ragazzo di quell’età non potrebbe nemmeno sperare;
Appena arrivato sull’Isola di Tenerife una bellissima mareggiata estiva proveniente da nord mi accolse attivando gli spot che generalmente funzionano meglio di inverno e per circa tre mattine di seguito riuscì a surfare molto presto una Spanish Left quasi deserta, cose impossibili al giorno d’oggi, ma a qual tempo se si era particolarmente fortunati e mattinieri poteva accadere.
E fu proprio in una di quelle mattine con un vento rosso da terra che portava con se la sabbia del deserto del Sahara che accaddero quelli che all’epoca consideravo due miracoli:
Il primo fù il mio primo vero tubo oceanico, non era il solito “sciampo”, come si dice dalle nostre parti quando si entra e si esce in mezzo secondo, era un vero tubo, cercato, aspettato e vissuto, e a quell’età e per la prima volta resta un’emozione indimenticabile.
Sono convinto che nella vita le emozioni che proviamo ed il modo in cui ci connettiamo agli elementi, rivela chi siamo e a volte questo si legge nei nostri occhi, irradiandoci di luce, come se fossimo realmente vestiti di un’aura, quella che nello yoga antico si chiama Anadamaya Kosha.
È un’aura emozionale e spirituale che può essere percepita da chi ha occhi per vedere ed un’anima per sentire, e quella mattina dopo quel tubo, quelle onde, quelle emozioni, c’era sul bordo di una piscina una una ragazza che portava in se tutta la bellezza estinta dell’antico popolo dei Guanci, secondo alcuni gli eredi di Atlantide che popolavano quell’isola .
Fu un solo istante in cui i nostri sguardi si incrociarono e l’unica parola che riuscì ad emettere fù “hola”, Naturalmente lei iniziò a parlarmi in spagnolo e io capì mano della metà delle parole che mi stava dicendo, ma questo non importa, quello che conta è che con un pidgin misto fra inglese e spagnolo nelle ore a seguire e nei giorni a successivi parlavamo insieme la lingua dell’amore che gli occhi sanno esprimere senza troppa filosofia.
Lei era una vera Local non surfava, ma tutti i suoi amici e familiari si, venni quindi accettato dalla comunità come benvenuto, sentendomi un pò come Rick Kane su North Shore quando si innamora della ragazza che nel film recita la parte della sorella del mitico Gary Lopez.
Ho fatto tanti viaggi in vita mia, alcuni di essi indimenticabili, ma quell’estate resterà sempre con me come una delle più importanti esperienze di.
E per quanto riguarda la principessa Canaria, lei si chiama Vanessa ed il nostro rapporto epistolare andò avanti per altri due anni, su ogni lettera versavo una lacrima da adolescente innamorato. In quegli anni fino ai 17 tornai altre due volte sull’isola con entusiasmi diversi, ma si sa che a quell’età le emozioni sono tanto rapide quanto travolgenti, e lentamente per distanza e impegno le nostre strade andarono separandosi.
Riguardo l’iniziazione dei 14 anni accaddero varie altre cose… Io e il mio amico Simone Cappotto fummo sponsorizzati da Pike, oggi Fabio Giacomini che all’epoca realizzava delle tavole di grande qualità, era un’epoca in cui anche ricevere una maglietta come sponsor era una bellissima soddisfazione figuriamoci una tavola.
Poi un giorno al Geckos che era una istituzione il Lungo ci diede una cosa sciocca che per noi significava tanto, la felpa su cui c’era scritto Gecko Surf Team
Era una felpa ben diversa dalle altre perché sulle normali c’era scritto Surf Shop, e solo su pochissime c’era scritto Surf Team, e non potevano essere comprate, si guadagnavano con il rispetto.
Voleva dire tanto per noi ragazzini che di quel mondo fatto di simboli, ruoli e gerarchie ci avevano fatto una religione; significava che anche noi eravamo riconosciuti come parte del gruppo dai più grandi, significava che il picco era anche nostro e per proprietà transitiva lo era anche quello di Banzai.
Per capire questo occorre ricostruire la scena di allora, in cui definire la vera scoperta di Banzai è opera assai ardua e tortuosa, mi limiterò quindi ad analizzare il post scoperta:
Era difficile definire chi furono i primi a dare il via a tutto, gli Ostiensi Santino, Gatto, Tibaldi, o i Romani? Nessuno saprà mai come è andata, ma un dato di fatto è che un ristretto gruppo di ostiensi dettava le regole nello spot, a volte con modi non proprio ortodossi, e spesso alzando un pò la voce con chi dal nulla veniva nello spot e pretendeva di surfare quelle onde, ma per un lunghissimo periodo a Banzai vigeva ancora la meritocrazia.
Noi eravamo ancora molto giovani , ma ci eravamo meritati quel rispetto ad Ostia, Focene, Coccia, dove caduta dopo caduta, risacca dopo risacca, timidamente imparando e diventando consapevoli di quello che facevamo, eravamo diventati parte integrante della comunità.
Giorni, Mesi, Viaggi, Onde, Esperienze ed Emozioni si susseguivano, non so ben dire quando da adolescente diventai adulto, ma in questo processo quel mondo, il mare, gli amici ebbero un ruolo fondamentale.
Iniziata l’università così come prima ero diviso dal mondo della montagna e da quello del mare, si inaugurava un’altra dimensione che era quella accademica, nuove amicizie, nuovi contesti, nuovi modi di esprimersi, studiare e conoscere il mondo.
Così anche l’arte, la cultura, la musica ebbero un ruolo fondamentale nella definizione dell’adulto che sarei diventato, spesso se non sempre preso in giro dagli amici del surf per questo, l’unico che mi ha sempre seguito in queste imprese underground è stato Belfio che fra noi era quello meno interessato al surf ma affasciato da tutto ciò che è cultura e anche gentil sesso.
Fra le varie, tanto per citarne una, andando al concerto dei Jesus and MaRy Chain una ragazza con la quale uscivo mi mise il rimmel agli occhi, era una concerto di musica new wave e io sono uno che ama stare al gioco così mi feci fare quel trucco senza nessun problema….
Il problema consiste nel fatto che il giorno dopo dimenticandomi del trucco entrai in mare ancora con le tracce di quella serata sugli occhi, inutile dire il livello di scherno raggiunto quel giorno.
Una cosa che ancora oggi viene sottolineata nella battuta “dai Lallo Raccontace de quando te truccavi!”.
Per quanto mi allontanassi, esplorassi nuove realtà e modi di vedere il mondo, nell’istinto tipico dell’antropologo , tornavo sempre alla tribù, luogo speciale , sociale e geografico del quale ero parte integrante.
Vivere in un sistema tribale prevede ritualità specifiche, ruoli, egemonie e regole, tutto questo perché la relazione umana che intercorre fra i componenti di quel dato contesto è estremamente ristretta.
In questa dinamica i sodalizi amicali hanno un ruolo fondamentale, tutti ci conoscevamo in quel mondo sul litorale ed i luoghi di massima aggregazione erano appunto gli spot e la Festa Rock di Carmela che si celebrava ogni venerdì, io ci lavoravo facendo cocktail ( gli amici direbbero le pozzanghere , da cui nacque il celebre Ozzie Pozzie, un drink con tre once di Midori, tanto dolce da essere imbevibile per qualunque maschio eterosessuale).
li ci ritrovavamo con tutti i volti più importanti del surf di quegli anni, ovviamente nessuno di noi veniva chiamato per nome, ognuno come da tradizione aveva un soprannome, ci fu un periodo in cui ne avevo più di uno
Cisquor 360 ( per la mia passione di fare più 360 su un’onda) , Lallo derivato dal soprannome di mio padre e Ozzielallo dopo il mio ritorno dall’Australia in cui ero fermamente convinto di essere ozziewright italiano, sia per la mia passione per la pittura e per qualche manovra aerea australiana che quando ero fortunato rientravo.
Oggi vedendo le nuove leve che a 10 anni sono già cresciuti a pane, coach ed oceano il nostro essere “bravi”all’epoca ci fa riflettere di come si sia evoluto atleticamente il surf, ora non è più una subcultura, ma esiste ormai una vera e propria cultura del surf italiano.
Eppure quel nostro essere bravi da ragazzini ancora sopravvive nel nostro vivere il surf oggi, ancora con la voglia di prendere le onde migliori, migliorare la tecnica ed essere sul punto migliore del picco, nonostante l’età media di noi si aggiri fra i 42 e i 50 anni.
Vedere quell’ardore negli occhi degli amici più stretti, ancora mi riempie di entusiasmo tanto che ogni onda buona presa dal Domanda, da Ciccio Cappuccino, dal Cappotto, dal Frezza e Jinny mi porta a cercare di dare sempre il meglio con onde buone e con mezzo metro di corrente…
E guai a chi cade o sbaglia una manovra, perchè l’occhio “Maleficus” di Ciccio è sempre puntato su di te, ovviamente non quando fai cose belle, ma solo quando cadi.
Sfotterci è la parola d’ordine, tanto che lo facciamo anche a migliaia di KM di distanza, per esempio con “Cocco” al secolo Emiliano Cataldi, dall’Australia non ci si scrive per dirsi “ciao come stai” ma per commentare ovviamente in negativo le rispettive performance surfistiche, anche su Facebook, dove magari la foto è perfetta, ma bisogna comunque trovarci “la Magagna”.
Eravamo, Siamo e Saremo una realtà tribale ed n ogni grande struttura tribale che si rispetti ci cono dei sottogruppi relazionali più stretti, ma il rito iniziatico ed ancestrale è sempre collettivo e coinvolge tutti i componenti, così nascite, unioni e morti sono i passaggi che tutti noi dobbiamo attraversare.
La prima perdita è sempre la più dolorosa e ci investe con un fragore che non riusciamo a comprendere rendendoci più vulnerabili e fragili, ma ci prepara per le perdite che avremo un giorno.
Per tutti noi il primo grave colpo della vita fu la perdita di Manuela, la Pequegna, le diedi il soprannome quando la conobbi appena tornato dalle Canarie mi pare nel 94 , era una delle primissime ragazze che facevano il surf, era un vero spirito libero.
Eravamo stati insieme quando avevo 17 anni e nuovamente quando ne avevo 21, ma oltre il rapporto sentimentale che può intercorrere fra un’uomo e una donna, lei era una amica.
Mi resta difficile parlare di questo in queste righe perché ritengo che la perdita sia qualcosa di estremamente personale e riservata per tutti coloro che l’anno vissuta.
Ma sento di doverlo fare perché il dolore che tutti noi abbiamo vissuto rappresenta l’importanza della traccia indelebile che il suo passaggio e quello di altri amici perduti ha lasciato dentro tutti noi. Certi dolori rappresentano la perdita dell’innocenza, la fine dell’età dell’oro in cui si comprendere che una certa presunta invulnerabilità è solo una illusione di gioventù.
Sulle note di Scar Tissue se ne andò quell’estate che segnò per tutti noi un passaggio definitivo che forse ci rendeva più adulti ma spogli di qualcosa, cadevano le armature del nostro ego ricordandoci il nostro livello di fallibilità, fragilità e vulnerabilità.
Anche nel dolore purtroppo sono uno di quei soggetti che ha sempre amato approfondire e non solo in termini accademici, parlo studio come osservatore partecipante della mia vita, e come tale ho imparato ad esplorare sino all’ossessione la meravigliosa efficenza dell’universo nei suoi colori e nella sua magnificenza, anche nel solo profilo di un’onda, così come in quei momenti di dolore ho voluto cogliere le espressioni più oscure dell’anima e a volte le ho abbracciate alla ricerca della comprensione della sofferenza. Il momento di rinascita forse fù solo qualche mese dopo quando immergendo in mare una poesia d’addio scritta per lei, mi resi conto che in un certo modo avrebbe continuato ad accompagnarci tutti nel grande ricordo che aveva lasciato con la sua breve vita.
Ed in quel momento in cui molti di noi per la prima volta capivano cosa effettivamente era la perdita ho compreso che nonostante i colori della tavole, delle creme sul viso, delle mute, e sulle riviste che passavamo ore a sfogliare, non esisteva solo la gioia, la bellezza ed il divertimento, ma c’era anche la solitudine, la disgregazione, la depressione di una fanciullezza che ci aveva ormai abbandonato per spalancarci un maniera definitiva le porte della vita.
Se guardo indietro con un percepire nostalgico posso dire che effettivamente abbiamo avuto una gioventù fortunata con le perdite e le vittorie di ogni generazione, la nostra in particolare si è protratta per lunghi anni, dato che oggi a quanto pare si è ragazzi fino ai 35 anni.
Eppure anche nel mio percorso che ritengo estremamente fortunato ammetto di aver vissuto momenti di grande smarrimento disillusione scoraggiamento dai quali mi sembrava impossibile uscire, e sono proprio i bastoni che la vita ci mette fra le ruote a ricordarci chi veramente siamo, e a far ruggire quella forza inattesa che è assopita dentro di noi.
E anche per me fù così: nel mezzo dei miei studi universitari infatti preso dallo studio ed identificato in ciò che sarei dovuto essere e ciò che la società offriva in quel momento ho vissuto una delle peggiori crisi esistenziali della mia vita, da ragazzino pensavo che diventare antropologo mi avrebbe portato a vivere come Indiana Jones e trasmettere le scoperte ai posteri, ma in quel particolare periodo storico la massima aspirazione alla quale si poteva ambire era sbarcare il lunario in un qualsivoglia impiego ovviamente ben distante da ciò che era il percorso che avevo scelto.
Così da un giorno all’altro caddi vittima di un attacco di panico senza nemmeno sapere cosa fosse, altro che onde, altro che scalate, è li che ho scoperto l’abisso e la vara paura della vita, avevo 23 anni più o meno e non scorderò mai l’istante di quel primo batticuore così come non dimentico la depressione derivante da quei due mesi di paura.
Dovevo fare i conti con tutta una serie di avvenimenti che avevo trascurato e sui quali era ora di fare luce, come il rapporto con mio padre che era diventato conflittuale da quando tre anni prima aveva lasciato casa.
“Erano giorni di vita dura “ citando i Baustelle , era un flusso emozionale che mi teneva lontano dal mare, lontano degli amici e dalle mie aspirazioni, lentamente capì che non era solo colpa del lavoro , dell’antropologia, l paura veniva da lontano, veniva anche dal fatto che qualche anno prima proprio tornando dal surf avevo avuto un terribile incidente con il motorino che mi aveva oltre che fratturato diversi arti, tenuto in stato di coscienza/incoscienza per diverse ore, avevo effettivamente vissuto un’esperienza di stress post traumatico.
Ma non avevo voluto affrontarlo perché per me la guarigione stava nel corpo e mi ero focalizzato solo su di esso, senza capire che nella nostra vita non esiste nessuna sofferenza che sia solo fisica senza essere psichica e non esiste sofferenza psichica che non sia anche fisica.
E li proprio in quel momento si condensavano una serie di ceffoni che la vita mi aveva dato negli ultimi anni, ma che ero troppo deconcentrato per fermarmi e cavalcare proprio quell’onda delle singole perdite, delle singole separazioni, dei singoli fallimenti familiari.
E quel batticuore era li per svegliarmi e ricordarmi si prendere in mano le redini della mia vita e ricordarmi chi era quel bambino sognatore che non aveva paura di nulla.
È paradossale comprendere che proprio la paura psichica, quella irrazionale, nascosta, sia a volte una risorsa per focalizzarci, e darci energia e creatività interiore.
Così quel fuoco tornò in me ad ardere ed alimentare nuove speranze, sogni ed aspirazioni,
Di quei giorni bui ricordo il ruolo fondamentale che ebbe il mio cane Woodstock, la voglia di vederlo correre sulla spiaggia ed in pineta mi spingeva ogni giorno ad uscire di casa e ritrovare la gioia della vita.
Stare lontano dal surf per due tre mesi mi aveva schiarito le idee sulla visone stessa che avevo di questa mia passione, avevo compreso che stavo surfando per dimostrare, non per essere.
In quel momento di analisi compresi che c’era molta, molta gente meno brava di me che andava in mare e faceva il suo dovere, quello di divertirsi, ed è proprio li che mi innamorai nuovamente della vera essenza del surf che vivevo da ragazzino.
Nella nostra struttura tribale invece il giudizio di se stessi e degli altri era molto forte e mi resi conto che tutto questo negli ultimi anni mi aveva condizionato tantissimo.
Così finalmente quando tornai in mare compresi che la bellezza stava anche nella caduta e nel fallimento, me ne ero andato qualche mese a Parigi a studiare per capire tante cose, e tornai con una visione diversa della realtà.
Molti amici mi dissero: a Parigi? Io che le città non le ho mai digerite tantissimo, amando soprattutto mari e montagne incontaminate.
Ma lo ammetto un pò era per un nuovo amore, un pò per un diverso desiderio di scoperta esistenziale, ma tornai finalmente con l’entusiasmo puro di tornare sulle onde.
Proprio in quel momento capii l’importanza della parola allineamento, un allineamento che effettivamente non avevo mai avuto, una forma di focus psichico che ci permette di essere presenti nel senso totalizzante del termine; uno stato di piena esistenza, fatto di concentrazione e presenza verso la bellezza di ogni singolo istante vissuto.
Erano insegnamenti che solo in quel momento post crisi avevo compreso, eppure avevo già esplorato nello yoga quella filosofia, ma ne ero ancora troppo distante, mia madre che conosceva bene quel mondo mi suggeriva quotidianamente che la trasformazione proveniva da una diversa visione dell’IO che nel mio caso era ancora troppo, troppo forte ed assordante per rivelarmi il mondo per come realmente era: un velo di costante illusione nel quale tutti dobbiamo imparare a navigare.
Praticavo già Yoga da qualche anno avevamo iniziato insieme con Valentina D’azzeo alias “Psicho Lille” , cara amica e ex campionessa italiana, ma solo in quel momento capii la grande risorsa di liberazione psichica che insieme al surf rappresentava questa disciplina.
E finalmente tutti i tasselli erano al completo per rendermi l’adulto che sarei poi diventato, e come è inevitabile crescendo l’anima di un singolo individuo si sviluppa e diventa sempre più indipendente da quel sistema tribale nel quale si è cresciuti.
Per quanto mi riguarda non posso che ringraziare i momenti di difficoltà o sconforto che mi hanno guidato in quella che doveva essere la mia strada, un’onda che spero di cavalcare con tutto l’entusiasmo, il coraggio e l’onestà fino al suo Close Out.
Lavoro ancora oggi con l’Antropologia e la Natura avvicinando soprattutto le nuove generazioni a questo vasto mondo di avventura e scoperta, nel frattempo avanzando nel mio percorso accademico mi sono specializzato in Antropologia Clinica, proprio per poter aiutare chi come me da ragazzo vive momenti di smarrimento ed incertezza.
Cerco quotidianamente di trasmettere ciò che la vita mi ha insegnato in tante Avventure attraverso appunto l’Antropologia, la Natura e lo Yoga, grazie alla presenza di chi non mi fa perdere mai d’animo :la mia Compagna Valentina, Falco, il nostro figlio a 4 zampe ed i soliti pipponi filosofici di mia Madre che mi tiene ore al telefono discusando sull’escatologia dell’universo.
Ma la famiglia è più estesa dei semplici legami di sangue, la famiglia sono tutti coloro che appartenendo a quel sodalizio Pan Tribale hanno reso migliore ogni istante della mia esistenza.
Questo racconto è dedicato a tutti loro, anche quelli che non fanno più parte delle nostre vite, che hanno fatto il loro passaggio dal mondo grezzo nel quale ci troviamo, verso quello sottile , spirituale, dal quale mi piace pensare che ci guardano con indulgenza.
Non c’è un giorno in cui il mio pensiero non si rivolga ad ognuno di loro mio padre Lallo e Woodstock compresi.
Per molti di noi ancora in cammino le strade si sono separate, alcuni sono andati a vivere in Australia, o in nuova Zelanda, alcuni si sono sposati prima e altri dopo.
Mi manca ogni giorno la presenza di amici come il Crocchetta che dalla Nuova Zelanda mi manda foto di bellissime onde a Raglan e dei suoi bellissimi figli che crescono a piedi scalzi nelle scuole maori.
Ma ogni giorno mi sento grato ed orgoglioso di tutti questi anni di condivisone, esperienze, avventure, e “Marachelle” e “Zizzagne” (noi le abbiamo sempre chiamate così), è che qualcosa di estremamente forte e vitale ancora sopravvive in tutti noi, c’è ancora una scintilla che ci tiene indissolubilmente uniti, con quel coraggio dei leoni che hanno solo i ragazzini.
Con i più stretti passo molto tempo e anche alcune feste comandate le festeggiamo con le loro rispettive famiglie, compagne e figli, e regolarmente in base agli impegni lavorativi ci vediamo in acqua all’alba, al tramonto o tutto il giorno.
Siamo ovviamente tutti immersi nelle nostre vite, nei nostri doveri o chiaramente nelle nostre passioni, ma quando le nuvole si muovono a libeccio o a scirocco anche se la sveglia è alle 5 il mio telefono è già invaso di messaggi, che servono più a sviare e mettere zizzania che per surfare.
Spesso la sera la mia compagna Valentina, che tutti ormai chiamano “La Santa” mi guarda ridere davanti al telefono dicendomi :
Dami che Fai?
Sei sulla chat dei Caini o su quella Ostia Locals?
Sulle quali cui regolarmente ci insultiamo ci prendiamo in giro e come dicevamo da ragazzi ci “fomentiamo” per le onde che verranno, perchè tanto arrivano sempre, a volte ci regalano gioie….Altre volte ci regalano “il Sercio” o “the Serch” parafrasando il motto Rip Curl, che in termini Local tradurrei come “fregatura bella e buona”
Ho citato film e canzoni in questo racconto, ma quella che più identifica questa storia che è la nostra storia è Bro Hymn dei Penny Wise su cui tutti abbiamo urlato all’Open Bar di Carmela o al The Party a Surfers Paradise, così come al Fontaine Laborde ad Anglet o nei pub di Kuta.
Tutta la nostra storia di onde si basa sull’amicizia, legami indissolubili che ci terranno sempre legati al quel clan primordiale di appartenenza fatto appunto di regole e gerarchie tribali, selvaggi come i giovani cacciatori del signore delle mosche, alla ricerca della nostra isola.
Ognuno di noi a modo suo più volte ha naufragato sino ad approdare alla sua isola felice, e che possano sempre venti favorevoli guidare la prosecuzione del nostro viaggio, e fù così che da surfisti diventammo uomini.
A tutte le future generazioni, a tutti i neofiti o chi crede di essere arrivato
Voglio dedicare con affetto i versi del celebre poeta lidense Albertone Ippoliti:
“Prima de Parla…… Imparate a fa er Surf”
Questo per noi è sempre stato l’ABC del rispetto fuori e dentro l’acqua, a quando ci incontrate proprio in quell’elemento siate comprensivi, se vedete qualcuno più anziano , o con qualche chilo di troppo o con meno capelli in testa, ovviamente non è il nostro caso…
Noi siamo ancora tutti bellissimi e giovanissimi, o almeno ci piace vederci così, ma sappiate che su quella precedenza che vi viene chiamata sulla destra di Banzai c’è tanto di quel vissuto con le relative gioie e dolori, gioite della vita che vi ha fatto scoprire il surf.
Ma ricordate che la bellezza di quello che fate sta nell’amico che sta condividendo la giornata con voi, con il quale potrete esultare al termine della session, senza di lui, senza quell’amico al nostro fianco l’intero racconto di questa vita che ho trascritto non avrebbe avuto senso, vi auguro che un giorno scoprirete la bellezza di essere umani senza dover essere necessariamente surfisti.